Tra presente e futuro: 3 strategie per dar senso alla vita nella società delle conoscenze

Posted by on 29 Febbraio 2016 in Blog | 0 comments

Tra presente e futuro: 3 strategie per dar senso alla vita nella società delle conoscenze

C’è un grande bisogno di chiarezza, Negli ultimi decenni ci sono state grandi trasformazioni, sono successe molte cose alcune belle altre brutte. L’ambiente di vita è profondamente cambiato e con esso stanno forse mutando i bisogni e le esigenze attraverso le quali gli esseri umani danno senso al loro vivere; soprattutto, la trasformazione in atto sembra diventare ancora più veloce e pervasiva, assumendo contorni e direzioni imprevedibili. Solo certi tipi di interpretazione superficiale quanto pericolosa sembrano immobili e tentano di ricondurre tutto a vecchie categorie e logori stereotipi mentre nella vita quotidiana ognuno cerca di arrangiarsi come meglio può.

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Il vero bisogno dell’uomo è quello di agire in un ambiente soggettivamente controllabile e l’imperativo più forte per ogni soggetto è, ora più che mai, quello di dar senso alla propria vita. In questa tensione che spesso si manifesta come malessere e disagio più frequentemente che come richiesta esplicita, ogni persona vuol vedere riconosciuto ed aumentato il valore di sé  in ogni modo possibile (come sanno bene i pubblicitari). Queste esigenze emergono con forza particolare nella nostra società dove la potenza delle tecnologie consente ormai da tempo uno stock produttivo complessivo che in linea di principio sarebbe più che sufficiente a coprire i bisogni materiali più urgenti di tutti gli abitanti del pianeta; purtroppo questa ricchezza non è distribuita in modo equo, anzi: le differenze tra chi ha troppo e chi non ha nulla diventano sempre più ampie e drammatiche; viviamo in un mondo che predica l’efficienza produttiva ma allo stesso tempo spreca enormi quantità di risorse e di beni proprio a causa della totale inefficienza dei meccanismi che dovrebbero garantire l’equità e la giustizia nella allocazione delle risorse generate. Viviamo in un mondo dove l’eccesso produce patologie altrettanto gravi e drammatiche della carenza.
In questo mondo globalizzato la domanda di senso sembra diventare sempre più urgente: essa aumenta di pari passo con l’aumentare dei flussi informativi e finanziari, con la crescita di beni e persone circolanti a livello planetario; all’aumentare della conoscenza sembrano anche aumentare i dubbi e le perplessità ai quali le istituzioni sociali canoniche sembrano offrire soluzioni sempre meno funzionali. Con la crescente domanda di senso aumentano anche le soluzioni più strane e originali, ritornano in auge schemi a forte matrice religiosa, si ripresentano aperture e chiusure di tipo quasi tribale, si affacciano a volte fantasmi di soluzioni che sembravano decisamente superate e ormai improponibili, se giudicate con il metro della tramontata modernità laica e industriale. Dobbiamo prendere atto che non viviamo affatto nel mondo della conoscenza ma nel mondo delle conoscenze separate.

Ognuno, si dice, cerca la felicità a proprio modo; lo può fare tuttavia all’interno di una società e di una cultura che offre certi tipi di risorse ma non altre, che mostra specifici vincoli, che promuovendo certi tipi di soluzione altre ne esclude. Malgrado la globalizzazione e le fortissime spinte all’omologazione le società dovranno fare sempre più spesso i conti con gli effetti prodotti da questa ricerca che si radica su bisogni molto profondi; una ricerca che si mostra in tutta la sua complessità anche per effetto dei flussi migratori che mettono violentemente di fronte molte persone alla diversità irriducibile dell’esperienza dell’altro da sé.

Si tratta di una ricerca – quella del dar senso alla propria esperienza di vita in un ambiente controllabile da un punto di vista soggettivo – che fa parte della natura umana a prescindere dalle differenze di razza, religione, etnia e nazionalità. I frutti di essa si colgono in ogni fazione ed ideologia non meno che in ogni argomentazione: con sempre maggiore evidenza ci si accorge che essa non può essere dominata semplicemente attraverso l’argomentazione razionale poiché investe aspetti molto più profondi e spesse volte controintuitivi.

Ogni tipo di società organizzata si fonda e risponde alla domanda di senso attraverso specifiche istituzioni; allo stesso modo ogni persona organizza o vede organizzata la propria interiorità in funzione del bisogno di senso con modalità molto differenti, a volte imprevedibili, che tuttavia, possono essere comprese a livello collettivo.

Un modo per farlo è quello di ricorre alla nozione di tipo ideale. Un tipo ideale è nella sociologia di Max Weber una descrizione teorica coerente che non esiste concretamente nella realtà, ma che può essere usata con profitto per comprenderla meglio. Esso deriva dalla focalizzazione di certi caratteri empirici riscontrabili che vengono astratti, ampliati e formalizzati per ricavarne una concettualizzazione coerente. In tal modo essi diventano dei tipi puri, delle nozioni concettuali molto utili e potenti che possono essere usati per comprendere il mondo.

Per quanto possibile nel breve spazio di un post immagino tre tipi ideali che rispondono a differenti strategie di senso e che trovano precise rispondenza culturali e ideologiche all’interno della nostra società. Si tratta di tre costellazione di valore che variamente composte orientano le vite di molte persone.

E-F-A p

1. La strategia  “Avere e consumare”

Immagino questo primo tipo ideale come organizzato intorno al principio dell’avere. Avere o, meglio avere sempre di più, e dunque consumare, è il tratto fondamentale che caratterizza la ricerca di senso di molte persone.  Il consumismo nel quale viviamo e siamo cresciuti è uno stile di vita che si fonda su un assunto fondamentale: la realizzazione personale e spirituale è (e deve essere) ricercata attraverso il consumo; esso è, a livello sociale, l’imperativo categorico necessario per far crescere costantemente il sistema economico; esso è, a livello personale, il tentativo di trovare il senso di sé e della propria realizzazione attraverso un consumo crescente di beni e servizi. Da un lato dunque è indispensabile che una mole sempre più grande di prodotti sia realizzata, acquistata e sostituita ad un ritmo sempre più veloce. Dall’altro non vi è limite a quanto l’individuo potrebbe (può) consumare se opportunamente addestrato. Consumare è l’azione quasi magica che ad un tempo garantisce la prosperità della società e la felicità dell’individuo. L’idea di avere (per consumare) è talmente radicata da essere data per scontata: si ha la casa, l’auto, la salute, l’anima, il corpo, la casa; si hanno i soldi i figli, gli amici, i beni, i terreni, le idee.
Come ha notato Baumann, nella società occidentali questo è il mantra fondamentale: consumo dunque sono. Per molte persone il consumo ovvero l’acquisto di beni e servizi è qualcosa che aggiunge valore e rafforza il senso di sè, potenzia l’identità. L’homo consumer è un pozzo di desideri senza fondo che agisce in via esclusiva per massimizzare il proprio tornaconto: il consumo gli consente di colmare e placare la carenza ed avere tanta più felicità quanto maggiore è la quantità e qualità dei beni e servizi che può permettersi: egli cerca senza riuscirci di trovare se stesso nelle cose finendo per perdersi in esse. L’intero apparato economico si regge su questo assunto profondamente delirante che è stato scientemente installato nella mente del consumatore. L’identificazione con le cose crea attaccamento; il possibile senso di frustrazione che si avverte dopo l consumo viene superato attraverso nuovo consumo in una corsa tesa a dimostrare di essere all’altezza all’interno del proprio gruppo di riferimento. Ad ogni problema il suo specifico consumo riparatore all’interno di un mercato potenzialmente infinito: anche per gli stati dell’animo e le sofferenze più soggettive. Beni e servizi consentono di affrontare e risolvere(?) problemi di infelicità, cattivo umore, difficoltà relazionali, inestetismi, sofferenza, ricerca di senso e significato. Basta essere debitamente informati e pagare. L’ideologia imperante della società occidentale ritiene e pratica una visione del mondo dove anche lo sviluppo dell’essere deve essere risolto in un atto di consumo.
Il lavoro in questa prospettiva serve principalmente per avere i soldi per poter consumare a prescindere dalla qualità intrinseca e dagli effetti che esso produce nel mondo. I consumatori di cose simili finiscono col riconoscersi ed apprezzarsi mentre chi non consuma resta semplicemente escluso.

2. La strategia “Fare”

Immagino questo secondo tipo ideale come organizzato intorno al bisogno di agire nel mondo e di cambiarlo in modi coerenti con la volontà; esso rappresenta da sempre un modo per realizzare se stessi, per esprimere la propria creatività ma anche per superare l’inquietudine e per fuggire dai dubbi che la mente vagabonda e non disciplinata pone agli uomini. Nella concentrazione del far bene ciò che si ama fare si manifesta a volte una presenza che consente di sentire il ritmo significante della vita. Questo approccio centrato sul fare, fortemente radicato nella cultura occidentale, con la sua enfasi sul lavoro e sul successo, ha rappresentato una formidabile spinta nel passato recente ed anche oggi è, per molte persone, fonte irrinunciabile di senso. In esso, nel fare, artigiani, piccoli e grandi  imprenditori, professionisti, artisti, lavoratori, trovano la ragione della loro vita, non per il guadagno monetario, ma per l’intrinseca soddisfazione del lavoro ben fatto, per il gusto della creatività applicata, per il riconoscimento della propria bravura e del proprio mestiere. Un fare che in molti casi viene premiato dalla società in modo esplicito seppure in proporzioni molto variabili da luogo a luogo: laddove si premia culturalmente il fare, dove esso è riconosciuto e legittimato secondo le modalità localmente dominanti, si aprono, per chi sa fare bene, le porte dell’accettazione e dell’inclusione sociale.
Il fare riporta tanto al tema del successo quanto a quello del dovere, entrambe fortemente associati alla dimensione del senso: allora bisogna agire, primeggiare, raggiungere obiettivi, costruire e realizzare qualcosa nel mondo “li fuori” e, attraverso questo, ottenere il riconoscimento degli altri nel quale specchiare se stessi e premiare la propria identità vincente. Risolvere nel fare, nella vita attiva, l’ansia e la paura del vivere in un processo dove il processo stesso è tendenzialmente più importante del risultato economico che si raggiunge: l’opera d’arte, il lavoro ben fatto, il frutto della propria creatività ed iniziativa, l’impresa che si ama come una creatura, la casa sempre linda e pulita. L’homo faber da senso alla vita attraverso l’esercizio della sua facoltà di trasformare il mondo in cui vive attraverso opere di piccola o grande levatura tese a cambiare uno stato di fatto in cui non si riconosce adeguatamente.  Nel paradigma del fare rientra l’impegno per un mondo migliore, l’operare contro qualcosa, il lottare contro l’ingiustizia, il combattere per i diritti, la libertà, la natura, la patria.

3. La strategia “Essere”

Immagino questo terzo tipo ideale come organizzato intorno al principio dell’introspezione, alla scelta di focalizzare l’attenzione dentro piuttosto che fuori. La felicità è uno stato del cuore e della mente che si trova dentro di noi a prescindere, in linea di principio, da ogni condizionamento esterno. Il mondo esterno appare come uno specchio dove l’uomo vede riflesse le immagini della nostra mente secondo il modello della caverna proposto da Platone. La forte identificazione con il mondo interiore non necessariamente esclude il rapporto con il mondo “li fuori”: per cambiarlo tuttavia più che l’azione diretta vale il rapporto interiore con esso. Quello che succede “li fuori” è complessivamente poco importante poiché l’attenzione si focalizza sulle componenti interiori, soggettive e personali: si tratta di una via che accompagna da sempre ogni tipo di civiltà, nelle quali germoglia in varie forme di misticismo, di contemplazione e di trascendenza, di magia, di religiosità vissuta in prima persona. Contemplazione intesa però come azione attiva per costruire la propria interiorità.
Questo orientamento alla spiritualità (comunque questo concetto sia definito) è in crescita costante in tutto l’occidente almeno a partire dalle elaborazioni e dagli impulsi creativi degli anni ’60 (con le sperimentazioni psichedeliche e le riscoperte religiose); poco importa ai fini della discussione che le manifestazioni osservabili siano le più diversificate come dimostra il proliferare delle nuove religiosità, di sette pseudo religiose, il ritorno delle grandi religioni (che va certo ricondotto anche ad una logica di appartenenza, di difesa e di sicurezza), lo sviluppo di comunità intenzionali, i nuovi culti, la diffusione delle discipline e filosofie orientali, lo sciamanesimo, la PNG, l’uso di sostanze per esperire stati di coscienza alternativi. Resta il fatto che dietro a questi fenomeni si cela una ricerca di senso almeno in alcuni casi autentica, che può essere letta come un tentativo di coltivare una dimensione differente da quella del mero consumo e del fare compulsivo, un tentativo forse confuso di recuperare l’essere come dimensione più profonda e/o trascendente. Certo molte espressioni sono drammaticamente distorte, pervertite e mercificate da piccole e grandi sette che offrono servizi a pagamento e non di rado emergono agli onori della cronaca nera. Certo, il sistema consumista ha già approntato un mercato fiorente per creare il bisogno e rispondere a queste esigenze; ma non si può ignorare che la tensione esista, che il bisogno non viene soddisfatto dalle chiese tradizionali, senza con questo sottoscrivere le idee di risveglio spirituale professate dal movimento new age. E’ un fatto d’altro canto che da tempo si assista allo svilupparsi di nuove professioni che hanno trasformato questa tensione in lavoro: counselor olistici, consiglieri spirituali e sistemici, trainer filosofici, maestri di discipline orientali, scuole evolutive, esperti in tecniche scismatiche, conferenzieri e guru sedicenti, web e case editrici, produttori di apparecchi mirabolanti, rappresentano ormai un indotto anche economico rilevante.

All’interno di ogni persona questi tre tipi ideali si compongono in diversa proporzione così come in questa nostra società essi variamente si intrecciano, si incontrano e si scontrano. Persone riconducibili prioritariamente ad uno di essi si trovano in tutti gli strati e le classi sociali, in tutti i gruppi, in tutti i territori, in proporzioni però assai differenti. Sempre pochissimi coloro che ricercano un esperienza autentica centrata sull’essere, discretamente presenti i secondi, tantissimi i terzi poiché in questo universo ritroveremo tutti quelli che perseguono non solo il consumo per il consumo mai anche il consumare per avere e il consumare per essere.

Se è vero che siamo in un periodo di transizione, c’è da supporre che anche l’estensione di ognuna di queste tre modalità possa cambiare nel tempo; se spostiamo avanti le lancette del tempo proiettandoci in un mondo dove le macchine svolgeranno per noi molti più lavori di adesso, come potrà cambiare questa proporzione? Di che tipo di persone ci sarà più bisogno e quali potranno vivere meglio in una siffatta società? E come vivranno gli altri? In un mondo senza lavoro chi si troverà a più cattivo partito? Su quale gruppo si dovrebbe scommettere e su quale investire per un futuro sociale radioso?

Da più parti si parla di un risveglio (necessario) nella consapevolezza a livello planetario, di una nuova spiritualità, di una umanità più evoluta capace di vivere in modo olistico in un universo di pace e prosperità. Il mondo sembra però andare in un altra direzione e miliardi di persone trovano senso alla loro vita nei vecchi modi: credere nella tradizione, obbedire, consumare, credere in Dio per tutto quel che non si riesce ad avere e a fare, credere nella scienza e nella razionalità.
Non sarà facile nel futuro prossimo trovare un’equilibrio ma se iniziamo a considerare noi stessi ed ogni persona vivente come soggetto in cerca di senso tutto sarà più facile.

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