Il grande gioco dei bisogni

Posted by on 4 Marzo 2015 in Blog | 3 comments

Il grande gioco dei bisogni

Cos’è in fondo la società in cui viviamo se non una incessante conversazione su cosa si debba intendere  per bisogno e sui modi in cui il bisogno possa e debba essere soddisfatto? Cos’è se non un sistema molto complesso per rispondere a domande che riguardano i bisogni? Società differenti hanno risposto in vari modi a queste domande: ora attraverso il centralismo statale, ora attraverso il mercato,  ora attraverso le comunità, più spesso attraverso un mix di queste. Il tema è antico quanto scottante:  conviene allora sdrammatizzare e considerare l’incessante processo di lavoro sui bisogni come un grande gioco sociale che coinvolge in un modo o nell’altro ogni persona ed ogni realtà organizzata.

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Dopo anni nei quali la società è stata ridotta all’economia e questa al mercato, per finire schiacciata dalla finanza irresponsabile, durante i quali si è accentuata la tendenza moderna a separare il sistema sociale in tante sfere di influenza specialistiche e autoreferenziali, è  diventato indispensabile riprendere una riflessione seria sulla società intesa come un tutto. Luciano Gallino la definisce nel suo dizionario di sociologia nel modo seguente:

Popolazione, collettività insediata (ma in qualche caso nomade) su un territorio delimitato da cui è escluso, di forza o di diritto, l’insediamento e il transito in massa di altre popolazioni, i cui componenti – reclutati in maggioranza al suo interno tramite la riproduzione sessuale – condividono da tempo una medesima cultura, sono coscienti della loro identità e continuità collettiva ed hanno tra loro distinti rapporti economici e politici, nonché particolari relazioni affettive, strumentali, espressive, complessivamente più intensi ed organici  che non i rapporti e le relazioni che eventualmente hanno con altre collettività; è dotata come espressione specializzata di codesti rapporti e relazioni di strutture – non necessariamente evolute fino ad assumere forma di organizzazione o di stato – parentali, economiche, politiche, militari per mezzo delle quali la popolazione stessa è capace di provvedere ai principali bisogni di sussistenza, produzione e riproduzione biologica, materiale e culturale – senza che ciò implichi in tutti i casi una completa autosufficienza o autarchia – di difesa interna od esterna, di controllo di comportamento individuale d associativo, di comunicazione e distribuzione delle risorse”.

In una data società l’insieme dinamico tra cultura, relazioni e strutture parentali, entità economiche,  amministrative e politiche, fa emergere il modo con cui i bisogni vengono soddisfatti in uno specifico periodo storico.  In linea di principio sia i modi di definizione dei bisogni che, soprattutto, i mezzi che sono messi in campo per soddisfarli cambiano da cultura a cultura, da società a società e possono essere, anche all’interno di una medesima, società differenti. Se assumiamo questa prospettiva, possiamo vedere chiaramente le differenze sostanziali tra le nazioni, tra nord e sud Italia, tra Italia ed altri paesi europei, tra città e periferie, tra gli anni 50 e il periodo attuale. Possiamo apprezzare i differenti modi di organizzazione dello stato sociale e del mercato; possiamo tentare di giudicare la validità delle diverse politiche che vengono messe in campo. Queste differenze permangono e sono da considerare una ricchezza, malgrado tendano ad essere nascoste e schiacciate, in Italia, dal peso del centralismo burocratico, dalla globalizzazione uniformatrice e dalle imposizioni delle istituzioni globali, da una finanza predatoria, dalla grande narrazione capitalistica neoliberista e dalle pretese di tutti i gruppi di pressione che a queste tendenze si ispirano. Esse illustrano al di la di ogni ragionevole dubbio come, in ogni società, possano nascere ed affermarsi giochi diversi fondati sui bisogni: proprio per questo possiamo pensare la società come un discorso ininterrotto che  definisce, costruisce, condivide, soddisfa e riproduce bisogni. In questa conversazione siamo volente o nolente tutti coinvolti: come cittadini, consumatori, utenti, clienti, pazienti, lavoratori, esperti, decisori; sono coinvolte tutte  le organizzazioni (pubbliche, private, profit o non profit), che possono sopravvivere e prosperare solo se i presunti bisogni dei loro “clienti” trovano espressione in una esplicita domanda di acquisto e in un conseguente atto di consumo.

1. Nella società emergono dunque definizioni di cosa si debba intendere per bisogno assai differenti in funzione dei diversi punti di vista in nome dei bisogni le imprese seducono per vendere, i moralisti ammoniscono e richiamano alla frugalità, i politici assecondano i desiderata dei loro elettori, le religioni criticano il consumismo, i riformatori invocano maggiore giustizia sociale, gli intellettuali e gli studiosi propongono nuove descrizioni all’interno delle loro discipline, gli economisti spiegano che il consumo è assolutamente necessario, e, da tutto questo vociare, emerge una nozione accessibile al buon senso ma sufficientemente sfocata per essere largamente accettata dal pubblico dei cittadini. Dal magma del possibile emerge sempre qualche posizione per un periodo diventa dominante ed egemone, data per scontata dalla maggioranza:  tale è il caso che interpreta il bisogno come la domanda aggregata di beni e servizi proveniente dalla società.

2. Nella società attraverso giochi molto complessi, si costruisce la figura del “bisognoso”, cioè si decide concretamente chi siano i soggetti meritevoli di aiuto in quanto non (o non più in grado) di agire autonomamente nel sistema; sono i cittadini che richiedono aiuto o facilitazione, i soggetti che si organizzano ed esprimono istanze affinché i loro bisogni vengano riconosciuti come diritti e regolati, quelli che trovano consenso ed accettazione nelle agende degli attivisti sociali e dei politici, che trovano l’appoggi delle lobby e delle minoranze attive.  Allo stesso modo si costruisce la figura del consumatore associando ad essa bisogni ricercati acutamente e modellati scientificamente per supportare sempre nuove esigenze di consumo.

3. Nella nostra società dunque si riproduce, cioè si crea e ricrea continuamente il bisogno attraverso una serie di meccanismi culturali ed istituzionali che vengono sbrigativamente riassunti nell’etichetta “mercato” o, meglio, mercati: la pubblicità, la moda, l’obsolescenza programmata, il marketing innanzitutto; ma anche , i movimenti per i cosiddetti nuovi diritti, possono essere intesi come risposte a certi sistemi di definizione e costruzione del bisogno, o, meglio ancora, risposte ai “nuovi bisogni” emergenti.

4. Nella società infine si soddisfano i bisogni socialmente accettati predisponendo e mettendo in funzione i mezzi e le soluzioni ritenute adeguate.  Così facendo ogni società esclude anche certe soluzioni dal novero di quelle potenzialmente possibili: così ad esempio forme e saperi tradizionali connessi alla salute (si pensi all’etnomedicina e all’etnobotanica) sono stati esclusi per lungo tempo dall’ambito del praticabile e relegati ai margini  della società, in attesa magari che qualche mercato li riscopra e rilanci in chiave economica (come per altro è successo  e sta succedendo). D’altro canto i bisogni così costruiti non debbono né possono mai essere completamente soddisfatti: ogni organizzazione per sopravvivere deve avere i suoi consumatori, i suoi clienti, li deve letteralmente costruire attraverso il proprio ingegno. Ecco spiegata l’importanza crescente nella conquista (il temine militare non è casuale) di nuovi mercati e nuovi consumatori: poca importa se tale conquista comporta la distruzione di intere culture altrimenti organizzate. Il sistema deve crescere, per crescere i cittadini devono consumare, ma per poter consumare debbono avere lavoro: dall’equazione perfetta sono espunti proprio i bisogni che sono diventati una variabile dipendente del sistema economico-finanziario mentre rimangono la variabile indipendente fondamentale di ogni società giusta.

5. L’industria della produzione del bisogno è vasta e ramificata: coinvolge pubblico, privato e terzo settore; interessa uno sterminato numero di esperti, produce lavoro e ricchezza ed interseca trasversalmente ogni settore della società. Il grande gioco così sostenuto si sviluppa attraverso vie impensabili e a volte contrapposte come la concorrenza spietata, la paura e la curiosità, il timore e la solidarietà. Ma in questo gioco ci sono attori forti, attori deboli, attori inascoltati e fors’anche soggetti che al gioco non sono neppure stati invitati.

Gioco dei bisogni

L’effetto complessivo di questo grande gioco oggi dominante sul quale si regge l’intera società è per alcuni versi inquietante; esso avviene all’interno di regole tendenzialmente condivise ma ampiamente ignote al pubblico:  come ogni gioco, implica strategia, finzione, inganno, manipolazione, conflitto, lotta, astuzia, collaborazione, contrattazione; esso genera spinta al cambiamento, aspirazione al miglioramento, sviluppo creativo non meno di involuzione ed alienazione;  è un sistema che esercita un forte fascino ed un attrazione fatale su quanti ne sono esclusi ed altrettanta repulsione in quanti se ne sento minacciati. Si è tradotto finora in un grande aumento del benessere materiale basato su una gigantesca crescita dei consumi (e della produzione), che si sta rivelando insostenibile dal punto di vista ambientale e in molti casi non più gestibile dal punto di vista  sociale, malgrado venga ogni giorno santificato dal sistema dei media. Il grande gioco dei bisogni è entrato drammaticamente in una crisi evidente proprio quando sembrava celebrare i suoi trionfi basati sul mito della crescita illimitata.

Qualcosa di nuovo tuttavia sta nascendo. Se ne colgono qua e la i segni anche se si stenta a comprenderne la forma e le regole, ancora non evidenti alla massa del pubblico abituato ed assuefatto al grande gioco dei bisogni: forme alternative alla cultura dominante (mainstream) ci sono sempre state ma oggi esse sembrano assumere un importanza crescente poiché si presentano con la freschezza della novità e come opportunità per uscire dalla crisi. Lo sviluppo impetuoso di una classe creativa, l’affermarsi di nuovi modelli di business, la crescita dei gruppi religiosi o pseudoreligiosi, l’affermarsi di processi di innovazione sociale, il proliferare di piattaforme tecnologiche gratuite, l’aumento di comunità intenzionali in grado di auto-sostenersi, la crescita del numero di soggetti che scelgono di ritirarsi dalla competizione per seguire altre possibili vie, insieme alla legittimazione sociale di cui godono gli innovatori sociali, i moderni visionari e gli imprenditori morali, sembrano attestare la presenza di pratiche concrete e credibili di cambiamento rispetto al grande gioco dei bisogni ancora dominante.

Si tratta di esplorazioni quanto mai necessarie se appena si ricordano le sfide globali che ci stanno di fronte nel breve periodo ma che diventano addirittura indispensabili se s considerano gli effetti della rivoluzione digitale effetti della rivoluzione digitale sul lavoro e le drammatiche ricadute della finanza irresponsabile sull’economia reale che ha spostato la ricchezza  verso le classi più ricche impoverendo drammaticamente vasti strati della popolazione, lasciando intravvedere lo spauracchio di una crescita senza occupazione.

Ora più che mai – e soprattutto in Italia – bisogna tornare ad una visione d’insieme che sappia prendere spunto anche da queste emergenze ed  innovazioni sociali, che sappia proporre nuovi giochi centrati sui bisogni: quale compito più alto per una nuova visione della politica?

3 Responses to “Il grande gioco dei bisogni”

  1. avatar
    Bruno Vigilio Turra says:

    Ebbene si. Non a caso sul tema dei bisogni si sono arrovellate le menti migliori per secoli e la liberazione dal bisogno sta all’origine di ogni riflessione politica, sociale e religiosa…

  2. avatar
    Catina Balotta says:

    Comunque questa faccenda dei bisogni è fondamentale, definita socialmente, perniciosamente indotta, tristemente usata. Non so … mi viene in mente De Andrè: “Dormi sepolto in un campo di grano/ non è la rosa/ non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra di fossi /Ma sono mille papaveri rossi.
    Siamo tutti destinati a morire … questa cosa della “macchina dei bisogni” ha a che vedere con la rimozione della idea della morte.

  3. avatar
    Catina Balotta says:

    Quello dei bisogni è un tema scottante. A cominciare dal fatto che i bisogni possono essere indotti. Quindi, soddisfatti i “primi”, se ne possono indurre altri e così via fino a deprivare interi gruppi di persone della loro autonoma capacità di decidere cosa davvero a loro serve indipendentemente dal marketing, dalla pubblicità e più in generale da tutte la campagne informative-mediatiche che ci vengono martellate in testa.
    Questo modo di costruire e demolire bisogni non riguarda solo il mondo dei consumi (un nuovo vestito, la macchina, le vacanze, i figli che devono studiare all’estero …), ma ha investito in maniera decisa quello che era il nostro sistema di welfare statale portandolo fino all’orlo del tracollo.
    Un sistema Statale che fornisce in maniera centralizzata e gerarchica servizi garantiti (scuola, prevenzione, sanità, assistenza) induce un atteggiamento passivo legato al fatto che tutto ciò che è garantito diventa un “diritto” e lo è sempre di più, più le generazioni si susseguono (e aimè ci allontaniamo dalla memoria storica di chi questo o quel servizio l’ha voluto, creato, animato e finanziato). Non solo, una volta data per scontata la risposta ad alcuni bisogni, ne emergono altri impellenti che prima non esistevano. Le case di riposo di 50 anni fa non avevano palestre, fisioterapisti, centro massaggi e servizio di parrucchiere. Ora quasi tutte le IPAB forniscono questi servizi con un conseguente aumento delle rette mensili a carico degli utenti. Così un anziano non ce la fa con la sua sola pensione a provvedere alla Casa di riposo e devono intervenire: o i figli nel caso siano detentori di reddito, o l’ente territoriale competente, se non c’è altro. Questo per lo stato Italiano è stato devastante e si è così cominciato a parlare di LIVEAS (livelli minimi di assistenza da garantire sull’intero territorio nazionale) e di Accreditamento (meccanismo attraverso il quale un ente regolatore pubblico può attribuire funzioni gestionali a un ente privato-convenzionato e richiedere in cambio standard mini di qualità erogata). Poi sono nate le famose “pensioni di accompagnamento” sussidi economici aggiuntivi per chi è in condizioni di invalidità. Tali pensioni vengono mangiate dalla “macchina che produce i servizi” senza lasciare un centesimo agli utenti. Resta tutto alla Casa di riposo, per farla breve. Siamo arrivati al paradosso che le Case di riposo hanno rette alle stelle, che il personale viene assunto tramite cooperative e pagato pochissimo, che ai poveri anziani non resta una lira. Ma perché? Perché la macchina che costruisce i bisogni ha perso di vista quali sono quelli essenziali, privando di lucidità il decisore pubblico (che non è mai riuscito a definire un catalogo articolato e esaustivo dei LIVEAS), il caregiver (che si trova nella condizione di fare fatica a sostenere una spesa di accudimento extra-familiare che nemmeno lui sa più esattamente da cosa dipende) e da tanti utenti. Quasi tutti scontenti. Ma cosa si fa adesso? Si prova a costruire attraverso il news making un altro bisogno e a riprodurre la trappola del “dobbiamo trovare un modo per soddisfarlo”. Così non se ne esce più e chiaramente uno Stato Assistenziale entra in crisi profonda.
    La necessità di staccare l’analisi dei bisogni dal mondo del marketing è un cane che si morde la coda. Bisogna decidere quali sono altre vie ortodosse per fare questa analisi e trovarne risposte adeguate. E resta anche da decidere cosa sia “una risposta ortodossa a un bisogno”. (Mi verrebbe da dire quella più accettata socialmente, ma questa è quasi una tautologia).
    I bisogni sono socialmente e culturalmente definiti e si fa fatica a uscire da lì. Più una società ha costruito un sistema di rapporti reticolari forti (tra politica società cultura e difesa) e più comportamenti di free riding vengono puniti con l’espulsione dal gruppo. E’ sempre stato così, ciò dovrebbe far riflettere.
    E’ vero che qualche esperienza “fuori dal coro” l’abbiamo vista tutti, è vero che un free rider che “gioca forte” può fare la differenza … e infine è vero che i momenti di crisi impongono di ripensare alle risposte ai bisogni con molto serietà. Io penso che tale serietà non debba partire dalla riduzione della spesa (risparmio?) ma da un autentico tentativo di ritrovare i bisogni primari e rispondere ad essi in maniera coerente. L’efficacia e l’efficienza hanno in questo senso qualcosa da dire, sicuramente.

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