Siamo cittadini o consumatori? 6 riflessioni sulla crescita del PIL e l’aumento inesorabile dei bisogni

Posted by on 2 Febbraio 2014 in Blog | 0 comments

Siamo cittadini o consumatori? 6 riflessioni sulla crescita del PIL e l’aumento inesorabile dei bisogni

Se si osserva la società dal punto di vista dei bisogni, liberi per quanto possibile dai preconcetti del pensiero unico economico che quotidianamente ci assedia con PIL, Spread, Dow-Jones, FTSE e simili amenità, il nostro sguardo si apre su prospettive e paesaggi  molto diversi da quelli che siamo abituati a vedere solitamente. Liberati un poco dal pregiudizio, da molti cliché  e fors’anche da qualche strisciante ideologia, possiamo perfino immaginare che lil fine della società nel suo insieme possa essere espresso con un linguaggio e con criteri differenti da quello della crescita, della riduzione del debito pubblico, dell’aumento dell’occupazione.

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Possiamo ad esempio ipotizzare che il fine della società non possa e non debba essere disgiunto dalla sua capacità di risolvere i bisogni dei suoi membri, possiamo immaginare che esso non possa essere pensato come completamente indipendente dal più vasto sistema ecologico dal quale le società sono emerse e traggono sostentamento, possiamo vedere la gabbia d’acciaio che Max Weber ci ha insegnato a riconoscere e mettere in dubbio la presunta certezza di vivere in un mondo disincantato, indifferente alla sorte degli umani.

Siamo tuttavia così immersi nel brodo dell’informazione mainstream che un simile passaggio (mettere tra parentesi l’ideologia economica imperante) risulta essere molto difficile ed è percepito dai più come un esercizio poco utile se non completamente insensato. Cosa possiamo scoprire se osserviamo il nostro mondo da questa prospettiva particolare e, nell’osservarlo, immaginiamo di farlo assumendo diversi punti vista che possano essere rappresentativi di differenti posizioni dentro la struttura sociale?

[1. Lo spirito del consumismo] All’alba del pensiero diventato oggi egemone (siamo nel 1955, l’epoca dipinta nei suoi aspetti positivi dalla situation comedy Happy Days), un economista allora molto autorevole Victor Lebow, membro del gruppo di analisti economici del Presidente degli USA Eisenhower, se ne usci con questo asserto che è la chiave di volta dell’intero edificio della “nostra” società del consumo:

«La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, a trasformare l’acquisto e l’uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e sostituiti ad un ritmo sempre maggiore».

 Questa prospettiva nella quale viviamo oggi completamente immersi come il pesce nell’acqua, al punto di non sapere neppure più cosa si intendesse (e si intenda) con il termine consumismo, pone la nozione stessa di bisogno  su una base che ne determina in buona sostanza la dissoluzione. In un contesto di sovra-produzione tutte le vecchie nozioni che si fondavano sulla penuria di beni e i rischi derivanti da eventi esterni imponderabili, sull’esigenza di mantenere una centratura rispetto alle esigenze basilari dell’esistere, vengono messe in discussione e presto cadono nell’obsolescenza; di fatto parlare di bisogno, almeno al livello di politica economica, diventa inutile poiché la prospettiva più importante se non unica diventa quella del consumo.

In che modo dunque, all’interno di questa prospettiva, le nostre società rispondono al bisogno? Superata la soglia della produzione di una massa di beni statisticamente sufficiente a coprire i bisogni primari di sussistenza, sostanzialmente attraverso 7 meccanismi fondamentali il cui scopo è appunto quello di aumentare i consumi:

  • la manipolazione sistematica dei sistemi di desiderio attraverso l’educazione al consumo che inizia fin dai primi anni di vita (“consumo quindi sono”);
  • l’obsolescenza programmata delle merci prodotte (i beni devono durare poco per essere sostituiti spesso) che si coniuga con il fascino dello sviluppo tecnologico;
  • la moda con tutte le sue implicazioni (ciò che ha ancora piena funzione d’uso deve essere rigettato in quanto non socialmente adatto);
  • lo specialismo esasperato e diffuso dove il ruolo dell’esperto  porta  allo svuotamento sistematico delle capacità che possono rendere autonoma la persona e alla loro sostituzione con prestazioni a pagamento  (“non so fare nulla che esca dal mio ambito ma so a chi rivolgermi”);
  • la sostituzione di attività prima svolte informalmente nelle reti comunitarie e familiari con prestazioni specialistiche a pagamento;
  • la credenza acritica che la crescita del PIL sia l’unica via ed indispensabile per far crescere la torta da spartire, creare lavoro e quindi far entrare sempre nuovi consumatori nel sistema (è necessario crescere indefinitamente);
  • l’estensione forzosa del modello ritenuto (unico) portatore di benessere in tutto il pianeta, e, con esso dello stile di vita occidentale, ovviamente presentato come (unico) portatore di libertà e di democrazia.

[2. Siamo ancora in grado di riconoscere i nostri bisogni?] Lasciamo i suggerimenti del consigliere del presidente degli anni ’50 e proviamo ora a recuperare una sana prospettiva soggettiva, cambiamo punto di vista e consideriamo il tema del bisogno (nella duplice accezione di carenza e di motivazione all’azione) secondo ciò che percepiamo e sentiamo come persone, come singoli esseri sociali dotati di corpo, di emozioni e di pensieri.  Con un impegno che ci è stato insegnato dalla fenomenologia cerchiamo di mettere tra parentesi il nostro ruolo sociale e tentiamo di individuare in cosa consistono i nostri bisogni: ne scaturirà un elenco simile al seguente, proposto da un’altro economista, Manfred Max-Neef (per non citare sempre il citatissimo Maslow), un personaggio decisamente diverso da quello citato in precedenza:

  • Sopravvivenza
    • Protezione
      • Affetto,
        • Partecipazione
          • Ozio
            • Creazione
              • Identità
                • Libertà
                  • Spiritualità

Osserviamo questo elenco liberi per quanto possibile da soluzioni precotte e preconfezionate, affrontiamolo in modo creativo, e chiediamoci in quali modi possa essere affrontato da singoli soggetti e in quali modi concretamente lo affrontiamo nella nostra vita. Da questo punto di vista, chiamati in causa direttamente, siamo decisamente più propensi a credere che l’economia debba servire alle persone piuttosto che le persone servire all’economia.

[3. Il marketing ovvero l’arte di vendere e costruire nuovi bisogni] In che modo la nostra società tende attualmente ad interpretare ed onorare tutti ed ognuno di questi bisogni? Secondo l’ipotesi mainstream o neoliberista proprio e solo attraverso i mercati, la crescita forzosa del PIL e la conseguente corsa sfrenata al consumo (ben espressa dalla famosa PublicitàProgresso (!) “fai girare l’economia”). Questa visione è esemplarmente sintetizzata in alcuni detti  recentissimi (verbatim) che girano nel mondo (affascinante) del marketing, il sottosistema economico deputato per antonomasia a far crescere le vendite (e i consumi) che, sul tema dei bisogni ha uno sguardo tanto originale quanto interessato:

    • “la pubblicità non è più l’anima del commercio, ma il commercio dell’anima”;
    • “Senza sogno non c’è bisogno”,
    • “il consumatore compra emozioni, non materia: un marchio senza emozione è solo merce”;
    • “Siamo ciò che compriamo”…

Considerati a prescindere dal loro appeal creativo ed attuale questi motti esprimono perfettamente l’idea di un consumismo ormai orientato a dare risposte proprio a quelle che sembrerebbero essere le aspirazioni più alte e “spirituali” dell’uomo (il modello marketing 3.0 dal prodotto, al cliente all’anima, discusso da P.Kotler nell’omonimo libro).

[4. Il rischio del riduzionismo fondato sul PIL] Ad onor del vero questo modello imperate fondato sul PIL e la coazione al consumo è stato messo in discussione fin dal suo avvento non solo dai critici di professione ma anche da soggetti ben addentro nelle pratiche del potere; ecco per restare sempre oltre Atlantico cosa ne disse R.Kennedy, allora candidato alla presidenza, nel suo celebre discorso del 1968, pochi giorni prima di essere assassinato:

 “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Un discorso di straordinaria attualità (credo che vorremmo tutti poter essere orgogliosi di essere italiani) che ci mostra come anche un potente possa uscire dallo stereotipo e lanciare nuove sfide se davvero è un leader dotato di visione. Un discorso che ci mostra con esemplare chiarezza i rischi che si corrono quando un indice (qualsiasi indice) viene sostituito alla realtà dei fatti che dovrebbe rappresentare.

[5. Le conseguenze inattese e gli effetti perversi della crescita] Cosa si paga per questo riduzionismo esasperato ed dominante fondato sull’imperativo della crescita, quotidianamente celebrato dai media, globalmente accettato ma che appare quanto mai fuori luogo, almeno da un punto di vista epistemologico, in un contesto che dice di fare della complessità, della pluralità e della libera ricerca della verità i suoi fondamenti? A fronte della mostruosa produzioni di merci che stanno avvelenando il pianeta e che sembrano offrire – almeno a noi occidentali (non ancora impoveriti) –  grandi possibilità di scelta e la possibilità di crogiolarsi nella propria soggettività svuotata di vigore, ecco alcuni degli effetti perversi (ma non certo inattesi) che ci toccano direttamente:

  • la distruzione dell’ambiente e l’inquinamento (fronteggiare con greenwashing e se si può con nuove tecnologie pulite);
  • la crescita costante del disorientamento e dell’alienazione (curare con Prozac, Viagra e con tutti i preparati di big pharma);
  • L’aumento della patologizzazione e la conseguente sempre più estesa medicalizzazione della vita;
  • la diminuzione del senso di sicurezza e della fiducia (risolvere con   aumento della videosorveglianza, della forze di polizia private e la guerra  implacabile al terrorismo);
  • l’esclusione di sempre più persone dalla fruizione di beni e servizi e la concentrazione della ricchezza in pochissime mani (nessuna soluzione).

 A tutto questo la cultura mainstream incurante delle conseguenze contrappone dunque le sue soluzioni perfettamente in linea con la sfida consumista lanciata da Lebow 60 anni fa e quotidianamente ribadita da un esercito di neo liberisti d’accatto (politici, giornalisti, professionisti, consulenti, docenti): più consumo, più crescita, più libero mercato. Nessuno di costoro viene sfiorato dall’idea che si possa e forse si debba cambiare direzione ed inventar qualcosa di diverso.  Ovviamente, nessuna presa di posizione decisa, che vada al di la della chiacchiera politicamente corretta, per fronteggiare gli effetti perversi, le esternalità e gli effetti collaterali; poca o nessuna riflessione seria ed approfondita sulla dimensione dei bisogni, sui modo in cui sono socialmente organizzati e sui modi alternativi attraverso cui le persone potrebbero soddisfarli.

[6.Che fare? In cerca di soluzioni innovative] E’ possibile uscirne salvando capra e cavoli e, in caso affermativo, come? In tal senso è  ancora percorribile ed utile l’alternativa exit or voice (or loyalty) proposta da A.Hirshmann nel lontano 1970? O forse sta emergendo qualcosa di nuovo di cui non si riconoscono ancora i contenuti, i confini e le potenzialità?

Ciò che davvero inquieta nella prospettiva dominante è la pretesa, che non esito a definire metafisica, di risolvere l’umano nel consumo e di volere imporre questa unica scelta indiscriminatamente a tutti i paesi e a tutte le culture. Questa situazione non rosea, resa più chiara dagli effetti della crisi e ancor più dai rimedi somministrati dai potenti per affrontarla, ha però il pregio di mettere i cittadini di fronte ai fatti crudi, un passaggio insidioso ma forse indispensabile per una diffusa presa di consapevolezza; offre una spinta ad evolvere, come affermano molti soggetti vicini a tutte quelle costellazioni di movimenti che sempre più spesso cercano di costruire forme alternative di vita, di esplorare piste creative ed innovative che sempre più spesso coinvolgono la sfera personale, culturale e sociale; stimola a riflettere e ad inventare soluzioni non convenzionali, a pensare fuori dagli schemi e ad ampliare gli schemi di pensiero; suggerisce di inventare nuove soluzioni e modelli che rendano obsoleta la realtà esistente.

Di sicuro qui c’è una grande sfida anche per tutti quegli operatori del bisogno (penso in particolare alle professioni di cura, sanitarie e sociali)  che non si fermano a svolgere il loro compitino ma allargano la loro riflessione sul bisogno fino ad indagarne le cause sociali ed ambientali. Di sicuro un cambiamento diffuso è necessario poiché non ci si può più permettere – citando G.Bateson – l’ostinazione molto occidentale di curare i sintomi senza dedicare ogni sforzo per intervenire sul sistema; e, di sicuro, il sistema a cui faceva riferimento non era quello economico neo liberista né quello finanziario che tante attenzioni ricevono dalla nostra classe dirigente.

 

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