L’ultimo decennio ha reso manifesto lo scollamento tra economia reale e finanza ed ha mostrato una frattura crescente tra l’economia e la società italiana. Malgrado questo e complice una politica che non ha saputo governare questi processi, il discorso economico è diventato sempre più pervasivo e diffuso, mostrando come in uno specchio i valori, l’ideologia e la retorica della società.
L’economia di mercato che viene celebrata ogni giorno dai mass media, che vediamo rappresentata in giornali, radio e televisioni secondo precise ritualità che hanno preso decisamente il posto che era stato per secoli appannaggio esclusivo delle funzioni religiose, è diventata parte del discorso quotidiano della gente, elemento imprescindibile della conversazione politica, riferimento centrale se non unico di ogni tentativo di giudicare il passato e di guardare al futuro; successi e fallimenti, progetti e strategie, politiche e investimenti sono sempre ricondotti al giudizio inoppugnabile del mercato. Questa rappresentazione rituale ci dice assai di più sulla natura e la possibile evoluzione della società di quanto possano dire i numeri, gli indici e gli indicatori, sui quali il discorso economico volgarizzato sembra fondarsi.
Ben prima di questi il ragionamento economico si fonda però su una serie di assunti, di presupposti taciti e di ipotesi che rappresentano solo una sezione di realtà osservata da una particolare prospettiva. Ed è proprio il riconoscimenti pubblico di questi fondamenti che fa dell’economia stessa una disciplina che può dirsi a buon diritto scientifica. Dal punto di vista sociologico, ad esempio, il sistema denominato “economia di mercato” è semplicemente un’istituzione ovvero un complesso di valori, norme, consuetudini che definiscono e regolano durevolmente, i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci di soggetti la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante. In quanto tale l’economia, o meglio il mercato, è un prodotto umano che nasce nella società e si fonda su dei valori comuni: essa è, fin dal suo nascere, un processo connesso con la politica, la morale e l’etica. Un meccanismo molto potente di specializzazione caratteristico della modernità, ha finito per separarla dal contesto, facendola funzionare e descrivendola come una sfera autoreferenziale che funziona in base ad implacabili regole interne e che si fonda su “valori” quali l’efficienza, il profitto, la crescita ad ogni costo, la competizione esasperata, che hanno finito con lo scollegarla e metterla in contrapposizione rispetto a molti dei valori che siamo pronti a riconoscere come fondativi dello stesso vivere civile. Con le parole più precise dell’economista David Korten:
Non esiste espressione più forte per i valori di una società delle sue istituzioni economiche. Nel nostro caso abbiamo creato un economia che stima il denaro al di sopra di tutto il resto, accetta la disuguaglianza come se fosse una virtù ed è spietatamente distruttiva nei confronti della vita”.
Questo meccanismo autoreferenziale che per funzionare deve costantemente crescere ed ampliare i propri confini sembra, oggi più che mai, sfuggito di mano, con conseguenze che rischiano di essere gravissime: esso infatti sta inesorabilmente distruggendo i beni ambientali, i beni pubblici e i beni comuni, ovvero quel capitale sociale immateriale che è necessario al suo stesso funzionamento e, più in generale, al mantenimento di legami indispensabili per mantenere il tessuto sociale. Tale rischio era già stato mirabilmente descritto in una pagina poco nota di un ancor meno noto testo, l’economia dei sentimenti, di Adam Smith, uno dei padri dell’economia moderna, eletto a campione delle varie forme di liberismo e fonte inesauribile di citazioni. Siamo nel 1774 ma l’analisi conserva ancora oggi la sua attualità :
Tutti i membri della società umana hanno bisogno di reciproca assistenza, e, allo stesso modo, sono esposti a reciproche offese. Quando la necessaria assistenza è reciprocamente offerta dall’amore, dalla gratitudine, dall’amicizia e dalla stima, la società fiorisce ed è felice. Tutti i suoi diversi membri sono legati tra loro dai gradevoli vincoli dell’amore e dell’affetto, ed è come se fossero attirati verso un centro comune di reciproci buoni uffici. Ma anche se la necessaria assistenza non dovesse essere assicurata da tali generosi e disinteressati motivi, anche se tra i diversi membri della società non dovesse esserci alcun amore e affetto reciproco, la società, sebbene meno felice e gradevole, non ne sarebbe necessariamente dissolta. La società può sussistere tra diversi uomini, così come tra diversi mercanti, per un senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco; e anche se in essa nessuno dovesse avere alcun obbligo, o legami di gratitudine verso qualcun altro, essa potrebbe essere ancora mantenuta da uno scambio mercenario di buoni uffici secondo una valutazione concordata. La società, tuttavia, non può sussistere tra coloro che sono pronti in qualunque momento a danneggiarsi o farsi torto l’un l’altro. Nel momento in cui quel torto ha inizio, nel momento in cui si manifestano risentimento ed animosità reciproci, tutti i suoi legami si spezzano e i diversi membri che la costituivano sono come dissolti e dispersi via dalla violenza e dal contrasto delle loro discordanti affezioni. Se c’è qualche società tra ladri ed assassini, essi devono perlomeno, secondo una trita osservazione, astenersi dal derubarsi e dall’uccidersi l’un l’altro. La beneficienza, dunque è meno essenziale della giustizia all’esistenza della società. La società può sussistere, anche se non nel suo stato più confortevole, senza beneficienza; ma il prevalere dell’ingiustizia non può che distruggerla completamente”.
Solo all’interno di un contesto caratterizzato da una ragionevole giustizia sociale e dalla presenza di un adeguato stock di beni comuni, può prosperare un mercato sano, basato su una sana concorrenza. Solo all’interno di un contesto caratterizzato da regole chiare e da attori auto-interessati ma ragionevolmente virtuosi, il mercato può esprimere tutto il suo valore positivo; solo in un tale ambiente trova fondamento e significato la più celebre affermazione di Adam Smith:
non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro considerazione del loro stesso interesse”.
Tale asserto non può essere certo ridotte ad una mera questione di egoismo e di cinismo sociale se lo si colloca all’interno di un giusto contesto e di un mercato perfetto (che nella realtà non è mai esistito); diventa però esplosivo se nel mercato agiscono “soggetti incappucciati” (come li definiva Federico Caffè) ed attori economici giganteschi esclusivamente orientati al profitto e capaci di condizionare la creazione delle regole tanto quanto di manipolare i bisogni dei consumatori. Sempre Smith ci ricorda che:
il clamore e i sofismi dei mercati e dei produttori persuade facilmente il popolo che gli interessi privati di una parte, e di una parte subordinata della società siano l’interesse generale di tutti”.
Il mercato, elemento mitico dell’attuale economia, è un’istituzione meravigliosa e potente ma, per funzionare bene, deve essere regolato in modo trasparente e, nel suo funzionamento, non deve distruggere i beni comuni che sono indispensabili all’esistenza della società entro cui agiscono le forze economiche; l’economia e la società che la esprime può quindi esistere fin tanto che è presente uno stock di beni comuni che possa garantire il minimo di fiducia e reciprocità indispensabile per far funzionare gli scambi e le relazioni tra le persone, che possa garantire in altre parole una base alla vita civile. Giustizia e beni collettivi non sono dunque intralci al libero mercato, limitazioni che ne impediscono il buon funzionamento, ma, al contrario, costituiscono la base in assenza del quale l’intero sistema è destinato a corrompersi e a implodere. Al di là di ogni richiamo all’altruismo, giustizia e difesa dei beni comuni e collettivi dovrebbero essere il primo interesse di quanti credono in un libero mercato che sia a servizio dell’uomo. Senza la prospettiva del bene comune l’economia perde ogni orientamento e ogni umana direzione. Senza l’idea di reciprocità – che non è riducibile al mero utilitarismo – ogni persona perde la speranza. Senza una base profonda di cooperazione e fiducia la competizione economica diventa semplicemente distruttiva. Senza giustizia e con l’unico fondamento della fiducia del consumatore, il mercato non può espletare compiutamente la sua funzione positiva. Oltre che produttiva la buona economia deve essere generativa: certo deve creare valore ma deve anche contribuire a generare fiducia ed inclusione sociale, deve riconoscere e controllare le esternalità che produce nel breve e nel lungo periodo. Se, al contrario, il sistema economico-finanziario distrugge sistematicamente le risorse ambientali e relazionali chi le potrà riprodurre? La politica travolta dagli scandali forse? La famiglia? Le comunità locali? Le istituzioni educative ormai ridotte ad una branca del mercato stesso? Il pubblico ormai assoggettato ai poteri della finanza internazionale?
Non vi è dubbio che un sano ragionamento economico debba essere, prima che tecnicismo specialistico, un chiaro ragionamento sociale e morale. E dietro a questo ragionare non si può non vedere un’immagine dell’uomo, della società e dei suoi valori non riducibili al dogma della crescita e all’imperativo del consumo forzoso. Se ancora si vive in una democrazia urge recuperare la valenza del ruolo di cittadino rispetto a quello di mero consumatore, la dimensione della responsabilità civile rispetto a quella del consumo, l’ambito delle virtù umane e civili rispetto a quello dei pur indispensabili diritti, la qualità dei prodotti e dei servizi rispetto alla pervasività incontrollata dei flussi finanziari. Cominciamo intanto a mettere in discussione che l’economia di mercato debba esistere e funzionare come sfera autoreferenziale che funziona senza valori di riferimento.