Divagazioni tra valutazione ed etica: essere dalla parte della ragione usando le virtù

Posted by on 16 Ottobre 2010 in Blog | 0 comments

Divagazioni tra valutazione ed etica: essere dalla parte della ragione usando le virtù

Quando si vuol parlare, da profani, di questioni etiche, il rischio di cadere nel moralismo e sempre elevato; d’altro canto per agire moralmente non si può prescindere dal ragionamento e dalla discussione pubblica, se non altro per evitare che la ragione stia sempre dalla parte del più forte o del più furbo.

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Appena sotto la superficie del tranquillo ruminare quotidiano si agitano questioni che, al solo pensarle, fanno dell’individuo una persona. Si tratta di quegli interrogativi che sempre più frequentemente accompagnano lo sviluppo di processi decisionali, comportando scelte tra opzioni differenti che spesso pongono questioni di ordine morale. Sono i casi sempre più numerosi sui quali si attivano i media, si scontrano le opinioni e le ideologie e si cimentano esperti veri o presunti, senza mai trovare un accordo.

Molti ritengono che l’etica dovrebbe essere la disciplina capace di rispondere a queste domande, così come la valutazione dovrebbe essere in grado di giudicare la qualità di qualcosa o il grado di raggiungimento di specifici obiettivi. Secondo questa interpretazione ampiamente diffusa lo scopo di entrambe sarebbe quello di supportare un processo decisionale: la prima dovrebbe entrare in gioco per risolvere problemi che pongono dilemmi di tipo morale, la seconda dovrebbe produrre informazioni capaci di garantire l’orientamento allo scopo e rendere ragione in modo “scientifico” dei risultati ottenuti.

Queste concezioni razionalistiche centrate sul problema sono molto radicate nella nostra cultura fondata sulla specializzazione: in questo universo concettuale, la valutazione diventa un fatto tecnico. mentre l’etica non è affatto necessaria fino a che non ci si trovi in una situazione caratterizzata da un dilemma morale: in tale situazione si passa da una modalità di pensiero (per così dire) normale ad una di tipo etico, per poi ritornare nuovamente alla modalità “normale”. Questa idea basilare è fatta propria da due degli indirizzi più noti dell’etica moderna che si fondano rispettivamente sul criterio di dovere e su quello di conseguenza.

Il primo, deontologico, sostiene che i problemi si risolvono mediante l’applicazione corretta di regole coerenti: si tratta dunque di codificare le giuste regole di comportamento ed applicarle (ad esempio, “il valutatore deve dire sempre la verità su ciò che ha scoperto attraverso la ricerca”). Purtroppo (o per fortuna) sappiamo bene che, spesso, le situazioni reali non rispecchiano le norme ed anzi a queste resistono ostinatamente. Ecco allora che come persone siamo costretti a porci nuove domande: che flessibilità deve avere un sistema di norme? Quando è possibile fare un’eccezione? Quante eccezioni si possono fare prima che la regola cessi di essere tale? Ha senso imporre un principio di flessibilità e buon senso nella applicazione della regola?

Il secondo, utilitaristico, è orientato alle conseguenze e sostiene che, a fronte di una scelta, la giusta risposta è l’opzione che produce il maggior bene per il maggior numero di persone. Anche in questo caso sappiamo bene le grandi difficoltà che si incontrano nel trovare e descrivere tutte i possibili esiti di un evento. Ed anche in questo caso dobbiamo porci delle domande: che effetti possono esserci sui soggetti che rappresentano la minoranza? Cosa succederebbe se non si prendesse quella decisione? Siamo proprio certi che le conseguenze ipotizzate si realizzeranno davvero?

Entrambi gli approcci pongono un’enfasi straordinaria sulla razionalità: restano tuttavia molti dubbi  circa il fatto che un’eccellenza morale si ottenga solamente attraverso un esercizio razionale, ovvero attraverso il legalismo o il calcolo matematico dei pro e dei contro. Perplessità ancora più grandi sorgono quando si passa dalla speculazione teorica al lavoro di valutazione sul campo. Sia in etica che in valutazione la logica e la razionalità non sono tutto: portate all’eccesso nascondono ed escludono qualità genuinamente umane quali l’empatia, la generosità, la saggezza, la cura dell’altro, l’amore, la benevolenza, la cortesia. Escludono insomma le pascaliane  “ragioni del cuore che la ragione ignora”.

Se la riflessione etica diventa un esercizio professionale fortemente razionalizzato,  quali garanzie ci sono che una persona qualunque possa riconoscere da sé la presenza di un dilemma morale e mettere in campo le azioni indispensabili ad affrontarlo? Esistono altre possibilità per affrontare concretamente queste problematiche, magari recuperando la piena responsabilità di ogni attore sociale?

Il filosofo e sociologo Alasdair MacIntyre sostiene in modo convincente che l’etica derivata dall’illuminismo non ha saputo tener fede alla promessa di giustificare razionalmente una  moralità universale. L’impossibilità di trovare per questa via un punto d’incontro sui principi conduce all’impossibilità di trovare un accordo su molte questioni morali. In una società complessa questo è pienamente plausibile; assai meno accettabile è la semplificazione per cui “si è dalla parte della ragione” come conseguenza de:

i) l’esito di un sondaggio,

ii) l’abilità di conquistare il potere convincendo una maggioranza,

ii) la capacità di ottenere il sostegno e l’appoggio di individui influenti,

ii) la disponibilità di un patrimonio che consenta di pagarsi un esercito di avvocati contro chiunque tenti di ostacolare il raggiungimento dei propri fini.

In questa situazione che ci vede tutti a vario titolo coinvolti, vale la pena recuperare il pensiero di Aristotele e la veneranda tradizione dell’etica della virtù. Con ciò la domanda “come faccio a fare buone scelte in quello che sto facendo?” viene affiancata da una domanda ancor più impegnativa: “che tipo di persona morale vorrei essere?”

Ma questa, ovviamente, è un’altra storia.

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